La conoscenza di un territorio e dei suoi valori identitari costituisce non solo il fondamento di un sentimento di appartenenza per le comunità che vi risiedono, ma anche il presupposto per un reale apprezzamento e per una consapevolezza del valore, collettivo e individuale al tempo stesso, del patrimonio culturale locale, oltre che una condizione essenziale per la sua tutela e per la sua rinascita economica e sociale.

Knowing a country and its identity values is both the basis for a sense of belonging for local communities and the prerequisite for an appreciation and a true understanding of the single and collective importance of the cultural and territorial heritage. It is, moreover, the necessary condition to promote its protection and economic and social revival.

venerdì 27 gennaio 2012

Mondragone: il Museo civico archeologico "Biagio Greco"


Apollo Musagete, II sec. d.C.
La statua di marmo, alta un metro e dieci centimetri, con in testa un bel diadema che incornicia una folta capigliatura, fu scoperta nel 1993 sotto una duna della spiaggia di Mondragone. La statua, di cui mostriamo una foto, faceva parte ed abbelliva il giardino di una villa romana del II secolo, ricavato con ingegnosi artifizi direttamente sulla sabbia. 



La prima pietra di questa importante istituzione fu posta il 19 marzo 1987, allorchè fu inaugurato dalla Pro Loco di Mondragone, l'Antiquarium civico, con lo scopo di sensibilizzare i cittadini ad affidare  i loro cimeli custoditi gelosamente e trasmessi di generazione in generazione.
L'iniziativa ebbe tale successo che la Pro Loco, nell'anno 1993, allora presidente l'avv. Michele Schiappa, allo scopo di ampliare la sala di esposizione dei reperti si fece promotrice presso l'Amministrazione comunale, sotto la sorveglianza della Soprintendenza archeologica, dell'istituzione del Museo civico. In vista dell'istituzione del Museo civico, venne presentato al pubblico il volume SINUESSA. Prospettive di memorie, testimonianze archeologiche dalla città e dal territorio di Sinuessa a cura di Luigi Crimaco e Gabriella Gasperetti.
Inaugurato il 20 ottobre del 2000, il Museo Civico Archeologico ha ottenuto il riconoscimento "di interesse regionale" nel 2007, ed è intitolato a Biagio Greco uno studioso locale.
Ospitato in un moderno edificio di proprietà comunale, nel 2022 trasferito in alcune sale del restaurato palazzo Ducale, raccoglie i numerosi materiali rinvenuti nel territorio mondragonese anche a seguito delle campagne di scavo che hanno interessato le aree di interesse preistorico di Roccia San Sebastiano e quella medievale della Rocca di monte Petrino. 
Ultimamente si è anche arricchito di alcune importanti collezioni private, tra cui, di particolare rilievo quelle di Luigi Nunziata e Giuseppe Cardella. 
Si comincia con la sala dedicata alla Preistoria che accoglie numerosi reperti provenienti dagli scavi della grotta di Roccia San Sebastiano: i materiali esposti sono databili al Paleolitico superiore, all'incirca tra i 34.000 ed i 27.000 anni fa.
A seguire i reperti di età protostorica ed arcaica, testimonianze delle popolazioni ausone ed aurunche: manufatti vari in uso nella vita quotidiana quali rocchetti, fuseruole e pesi da telaio, nonchè statuette votive e corredi funerari, tra questi di particolare rilievo alcuni vasi attici a vernice rossa.

Pelike a figure rosse 

con raffigurazione di personaggi maschili ammantati su entrambi i lati, 

inquadrabile nella produzione dei ceramisti che hanno lavorato nella cerchia del Pittore di Cassandra, attivo a Capua nell’ultimo quarto del IV secolo a.C.

Dal corredo della tomba 1, Mondragone, Chiesa di S. Michele Arcangelo.


Lekythos a vernice nera

mostra un corpo ovoide costolato e un lungo collo cilindrico con orlo ingrossato, 

tipica dei corredi di questo periodo, è di fabbrica probabilmente capuana.

Dal corredo della tomba 6, Mondragone, loc. Cantarelle.


 

Quindi i materiali del periodo romano legati alla storia di Sinuessa. I reperti in esposizione sono testimonianza degli aspetti sociali ed economici della colonia: di particolare interesse una collezione di anfore vinarie, una collezione di monete e la sezione epigrafica con un'epigrafe riferita al Pagus Sarclanus. In particolare da ammirare una statura di Apollo musagete del II secolo d.C.
Si arriva infine al periodo medievale con i materiali rinvenuti durante le ricognizioni archeologiche che hanno interessato l'area della Rocca sul monte Petrino. Suggestiva è la ricostruzione di una tomba bisoma, donna anziana con bambino. 
Notevole infine è la collezione di ceramiche, alcune di produzione locale, altre provenienti da aree del centro Italia, con in bella mostra un piatto gamelio (dono di nozze) di ceramica di Deruta, XVI secolo, decorato con un ritratto di donna e motivi floreali.


Skyphos 



Sala del periodo medievale

Sala del periodo medievale


Il Museo è dotato di un percorso per ipovedenti con una consistente riproduzione di reperti in scala 1:1 lungo il percorso e pannelli didascalici in linguaggio Braille.

Nel 2022 il Museo è stata trasferito in un'ala del restaurato Palazzo ducale di Mondragone. 



INFORMAZIONI

Direttore

Dott. Luigi CRIMACO

Indirizzo

Corso Umberto I°, palazzo Ducale

Recapiti

tel/fax +039-0823-972.066

Orari di apertura


Dal lunedì al venerdì: 10-12 - Martedì e Giovedì anche 17-19

Sabato - Domenica e festivi: CHIUSO




lunedì 23 gennaio 2012

Mondragone: Maria Santissima Incaldana




Sacra icona di Maria Santissima Incaldana
protettrice della città di Mondragone
Erede della documentata tradizione cristiana di Sinuessa, che, nell’anno 60 d.C., aveva accolto Paolo di Tarso, l’Apostolo delle genti, e durante la terribile persecuzione di Diocleziano, aveva pianto il martirio dei santi Casto e Secondino (292 d.C.), la Città di Mondragone conserva inalterato il sacro culto di Maria Santissima Incaldana, ab antiquis, sua protettrice. Fu infatti nel lontano XIII secolo, che un artista ignoto dipinse la sua immagine bizantina con il Bambino.
Nel 1560, in seguito ad una scorreria di pirati turchi, l’icona fu trovata miracolosamente illesa: appena affumicata tra i ruderi fumanti di quella che oggi conosciamo come chiesa del Belvedere. Proprio per le continue incursioni di barbari, che funestavano i nostri territori, fu deciso nel 1624, l’abbandono definitivo della chiesetta e la traslazione dell’immagine nel più difeso abitato di Mondragone.

Estratto da un testo del prof. Raffaele Fiore, 1985 




L'immagine di Maria SS. Incaldana prima del restauro dell'anno 1954
Il 20 aprile del 1954, al cospetto di una immensa folla accalcata sul litorale della città, l'arcivescovo di Napoli Marcello Mimmi, per volontà del Capitolo e di tutto il popolo, la incoronò Regina dei Mondragonesi.

Ogni anno, il lunedì in albis, l'evento viene ricordato con una suggestiva processione in costumi d'epoca: una copia della sacra icona su di un carro trainato da buoi, partendo dalla chiesetta del Belvedere e attraversando l'intera città, è traslata nel Santuario a Lei dedicato in Mondragone, eretto a Basilica minore il 18 aprile del 1990.


Rievocazione storica del lunedì in albis


Poste Italiane spa, ha dedicato alla sacra icona un francobollo commemorativo nell'ambito della serie tematica "Il patrimonio artistico e culturale italiano", con annullo speciale "Mondragone 1.4.2006 giorno di emissione". 
Così il Ministero delle Comunicazioni descrive il contesto che ha originato il 45 centesimi dedicato a Maria Santissima Incaldana.
Immagine di origini bizantine miracolosamente scampata all'incendio della cappella che la custodiva; la sua storia si confonde con le radici della città di Mondragone, ove non è solo simbolo religioso oggetto di profonda devozione popolare, ma è soprattutto l'emblema di una identità comune che unisce i cittadini nei secoli e tra i continenti.


Francobollo emesso da Poste Italiane

L'immagine di Maria SS. Incaldana nel manifesto della Peregrinatio Mariae, anno 1999.



L'immagine di Maria SS. Incaldana rappresentata su una mattonella
risalente ai primi anni del 1900.
(collezione privata)
L'immagine di Maria SS. Incaldana 
rappresentata in una stampadel secolo scorso
(collezione privata)





martedì 10 gennaio 2012

La flora del Massico

Il monte Massico è rivestito da una fitta macchia mediterranea con mirtoligustrolentiscocorbezzolo, sorbo, alloro e pungitopo. I boschi autoctoni che rivestono la montagna sono formati da lecciocarpinocarrubooleastro, roverella e acero comune




I rimboschimenti del versante meridionale vedono la presenza di cipresso, di pino domestico, di pino marittimo e, in misura minore, di robinia e di acacia.
Numerose anche le colonie di anemoni che rivestono i campi aperti, insieme a specie selvatiche di bocca di leone, finocchio.


Anemone hortensis 
Anemone hortensis
Anemone hortensis
Anemone deriva dal greco ἄνεμος (anemos) = vento, per una credenza, risalente ai tempi dell'antica Grecia, che ci espone Plinio il Vecchio (I sec. d. C.): flos numquam se aperit, nisi vento spirante: unde et nomen accepere[Plin., Nat. hist. lib. XXI: cap. XCIV (XXIII)] [trad.: il fiore si apre solo quando soffia il vento, per tal motivo ha preso questo nome]; anche Dioscoride (I sec. d. C.) chiama questo genere di piante ἀνεμώνη (anemone), e ne identifica due distinti generi: uno ἄγρια (agria) = selvatico, l'altro ἥμερος (emeros) = coltivato, di quest'ultimo cita altresì alcune specie (Diosc., Mat. med., lib II: CCVII). L'attributo hortensis deriva dal latino hortus = orto, giardino, in riferimento alla facilità con cui questa specie ripopola i terreni bonificati, quali, appunto, giardini, pascoli e uliveti, nonché i bordi delle strade.


Bocca di leone 

Borragine 

Arum maculatum

Finocchio selvatico

Il finocchio (Foeniculum vulgare) è una pianta erbacea mediterranea della famiglia delle Apiaceae (Ombrellifere).
 Conosciuto fin dall'antichità per le sue proprietà aromatiche, la sua coltivazione orticola sembra che risalga al 1500.
Si distinguono le varietà di finocchio selvatico dalle varietà di produzione orticola (dolce).
 Il finocchio selvatico è una pianta spontanea, perenne, dal fusto ramificato, alta fino a 2m. Possiede foglie che ricordano il fieno (da cui il nome foeniculum), di colore verde e produce in estate ombrelle di piccoli fiori gialli. Seguono i frutti (acheni), prima verdi e poi grigiastri. Del finocchio selvatico si utilizzano i germogli, le foglie, i fiori e i frutti (impropriamente chiamati "semi").

La raccolta del fiore del finocchio selvatico avviene in Italia appena il fiore è "aperto", normalmente a partire dalla metà d'agosto fino a settembre inoltrato. Il fiore si può usare fresco o si può essiccare, all'aperto, alla luce, ma lontano dai raggi diretti del sole, che farebbero evaporare gli olii essenziali. I diacheni si possono raccogliere all'inizio dell'autunno, quando è avvenuta la trasformazione del fiore in frutto.
Le "barbe" o foglie e i teneri germogli si possono cogliere dalla primavera all'autunno inoltrato.
I cosiddetti "semi" si usano soprattutto per aromatizzare tarallini (Puglia), ciambelle o altri dolci casalinghi e per speziare vino caldo o tisane.
È in uso nelle regioni costiere del Tirreno, un "liquore di finocchietto", per il   quale s'utilizzano i fiori freschi e/o i "semi" e le foglie.


Mirto (myrtus communis)
Lentisco

Salvia (salvia officinalis)

La Salvia Comune (Salvia officinalis) è un piccolo arbusto sempreverde.
Le foglie semplici, feltrose al tatto, hanno un colore verde-grigiastro e un odore caratteristico. La forma è ovale con margine crenato, nervature penninervie, attaccatura picciolata con inserimento semplice.
I fiori violacei sono riuniti in infiorescenze e hanno il caratteristico aspetto asimmetrico proprio della famiglia delle Lamiacee.
I frutti si formano alla base dei fiori e contengono i minuscoli semi ovoidali di colore marrone scuro.
La Salvia Comune è originaria del bacino del Mar Mediterraneo e anche in Italia può essere trovata allo stato spontaneo. La Salvia trova impiego in cucina fin dai tempi antichi.
Nonostante la sua origine mediterranea, la presenza della salvia per aromatizzare carni di vario genere è consolidata da secoli in quasi tutte le tradizioni culinarie d'Europa. Meno comune ma non raro è il suo impiego per cibi di tipo diverso: pasta (notissimi in Italia i tortelloni burro e salvia), formaggi (p.es. alcuni formaggi alle erbe), foglie di salvia fritte e anche zuppe.

Viburno

Violetta selvatica

venerdì 6 gennaio 2012

Monte Massico, eremo di san Martino (570 m. sl)

Monte Massico, eremo di san Martino, affresco.

"La prima attestazione dell'esistenza del monastero di S. Martino di Monte Massico è del 703/729 periodo nel quale Romualdo II, duca di Benevento, concede al monastero il possesso del Monte Massico; ma esso deve essere sorto sicuramente prima, forse nel sec. VI. Ce lo prova la notizia di Gregorio Magno secondo la quale intorno all'eremita si raccolsero una serie di discipuli per seguirne la via penitente. Nel 742/750 era retto da un abate (Alboino) e nello stesso periodo Gisulfo II, figlio di Romualdo II, conferma al monastero di S. Martino la proprietà dell'intero Monte Massico. I possedimenti del cenobio continuano ad ingrandirsi tant'è che Arechi II (758/788) gli elargisce ampi appezzamenti di terreni. Quando, poi, Sicardo diviene principe di Benevento (832/839) la struttura monastica è assoggettata al monastero di S. Vincenzo al Volturno."
Corrado Valente, L'Università Baronale di Carinola nell'apprezzo dei beni anno 1690, Caramanica editore, 2008, nota 54, p. 60. 
Nel secolo XI, con la traslazione del corpo del santo Martino nella Cattedrale di Carinola ad opera del vescovo Bernardo, il cenobio fu definitivamente abbandonato.


Monte Massico, eremo di san Martino, scala di accesso


Monte Massico, eremo di san Martino.

Monte Massico, eremo di san Martino, rovine del convento.



mercoledì 4 gennaio 2012

Il borgo Centore in territorio del comune di Cellole

Il borgo, che prende nome dalla omonima località, sorge ai limiti della fertile pianura di origine alluvionale contrassegnata dal massiccio del monte Massico, dalle pendici dei monti Aurunci e dal vulcano spento di Roccamonfina, a circa due chilometri dal fiume Garigliano che segna il confine tra Campania e Lazio.


Canale di bonifica nel pantano di Cellole


Edificato agli inizi degli anni cinquanta, su circa quattro ettari di terreno, rappresenta l’opera di chiusura dell’intervento di bonifica, iniziato negli anni ‘30 del più vasto territorio denominato “pantano di Cellole”, e l’applicazione, anche in questo territorio, della riforma fondiaria voluta dalla legge Sila (n.230 del 12/5/1950) e dalla cosiddetta legge stralcio (n. 841 del 21/10/1950), quest’ultima attuativa della riforma per tutto il territorio nazionale con l’espropriazione, la bonifica, la trasformazione e l’assegnazione dei terreni  ai contadini.


Una delle idrovore del Consorzio Aurunco di Bonifica 


Confluenza di un canale di bonifica nel fiume Garigliano

Borgo Centore rappresenta una tappa fondamentale nella storia urbanistica del territorio domitio in quanto realizzato per promuovere nuove forme di aggregazione per gli addetti all’agricoltura. Veniva offerta a mezzadri ed agricoltori la possibilità di vivere in abitazioni comode, spaziose, immerse nel verde con adeguati servizi quali scuola, chiesa, negozi di prima necessità, sottraendoli a condizioni di vita squallide e disumane.
Borgo Centore rappresenta una testimonianza della riforma agraria e nel suo insieme un esempio di architettura ed urbanistica caratterizzanti il primo dopoguerra e gli anni della rinascita dell’Italia, necessariamente da tutelare e salvaguardare per conservarli alla memoria delle future generazioni.
Il borgo è provvisto di viabilità interna percorribile liberamente con stalli di sosta, panchine disposte lungo i marciapiedi, spazi liberi davanti alla Chiesa ed alla scuola, a marcare il valore di socializzazione del borgo.


Nel 2012 la Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le Province di Caserta e Benevento ha sottoposto a vincolo il complesso edilizio "Borgo Centore" in quanto esempio di insediamento post-bellico di Cellole, testimonianza della riforma fondiaria avente lo scopo di realizzare l'espropriazione, la bonifica, la trasformazione e l'assegnazione dei terreni ai contadini e pertanto rivestente particolare interesse quale testimonianza dell'identità e della storia delle istituzioni pubbliche a norma dell'art. 10 comma 3 lettera d) decreto legislativo 42/2004.

Borgo Centore, chiesa di santa Caterina



Monte Massico: colori, corbezzoli e paesaggi ....

monte Massico, flora autunnale

monte Massico, alberi di corbezzolo 


I frutti del corbezzolo

Il Corbezzolo (Arbutus unedo), detto anche albatro, è un cespuglio o un piccolo albero appartenente alla famiglia delle Ericaceae, diffuso nei paesi del Mediterraneo occidentale e nelle coste meridionali d'Irlanda.
L’origine del nome generico, dovuto probabilmente al sapore aspro del frutto e delle foglie, ha radici antiche da ricercarsi nel celtico 'ar' = aspro e 'butus' = cespuglio. Inoltre l’origine del nome specifico "unedo" deriva da Plinio il Vecchio che, in contrasto con l'apprezzamento che in genere riscuote il sapore del frutto, sosteneva che esso fosse insipido e che quindi dopo averne mangiato uno (unum = uno e edo = mangio) non veniva voglia di mangiarne più.
Dal nome greco del corbezzolo (κόμαρος - pron. kòmaros) derivano molti nomi dialettali della pianta (Marche, Calabria, Campania), e anche il nome del Monte Cònero, promontorio sulle cui pendici settentrionali sorge la città di Ancona, e la cui vegetazione è appunto ricca di piante di corbezzolo.
I frutti maturano nell'anno successivo rispetto alla fioritura che dà loro origine, in autunno. La pianta si trova quindi a ospitare contemporaneamente fiori e frutti maturi, cosa che la rende particolarmente ornamentale, per la presenza sull'albero di tre vivaci colori: il rosso dei frutti, il bianco dei fiori e il verde delle foglie.


monte Massico: 150 anni dell'unità d'Italia, tricolore nel bosco

monte Massico, particolare del sentiero della forestale
Il borgo di Carano (Sessa Aurunco) e la pianura visti dal monte Massico